La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 11147 del 28 aprile 2025 afferma che la previsione di sanzioni conservative nei CCNL in luogo del licenziamento, ha effetti vincolanti solo dal momento della effettiva introduzione, salvo esplicite clausole in materia.
Il principio della certezza del diritto, infatti, impone che il datore di lavoro possa conoscere in anticipo le conseguenze delle condotte del lavoratore e calibrare di conseguenza la sanzione. In mancanza di tale certezza, il giudizio di proporzionalità può esporre l’impresa a incertezze e contenziosi. Vediamo i dettagli del caso e delle decisioni della giurisprudenza
Licenziamento e retroattività delle sanzioni: il caso
Il caso trae origine da un licenziamento disciplinare irrogato il 26 febbraio 2016 dalla società B.B. e C.C. Group Spa nei confronti di un lavoratore subordinato, A.A., in seguito a un episodio avvenuto l’11 febbraio dello stesso anno.
La condotta contestata consisteva in ingiurie e minacce lievi rivolte al caposquadra, concretizzatesi in espressioni verbali offensive e in uno strattonamento.
Inizialmente, il Tribunale di Gela aveva giudicato legittimo il provvedimento, ma la Corte d’Appello di Caltanissetta, in sede di rinvio (a seguito della sentenza n. 32838/2023 della Cassazione), ha riformato tale decisione, dichiarando l’illegittimità del licenziamento per sproporzione tra la condotta e la sanzione irrogata.
In particolare, la Corte territoriale ha escluso che il comportamento potesse configurare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso, sottolineando come l’infrazione fosse sì antigiuridica, ma non tale da giustificare il licenziamento. Tuttavia, ha ritenuto che non si potesse applicare una sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL) applicato in azienda – quello del settore chimico, energia e petrolio – poiché l’articolo 55 del CCNL, che introduce tale sanzione per minacce o ingiurie lievi, è stato inserito solo nel rinnovo del 25 gennaio 2017, cioè successivamente ai fatti e al licenziamento.
Per questo motivo, la Corte ha disposto la risoluzione del rapporto di lavoro e ha condannato la società al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 18, comma 5, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92.
La questione: può il rinnovo del contratto applicarsi retroattivamente?
Il cuore della controversia portata davanti alla Cassazione ruota intorno a una questione giuridica precisa: le previsioni del contratto collettivo stipulato nel 2017 – in particolare la clausola che introduce una sanzione conservativa per comportamenti come quelli contestati al lavoratore – possono essere applicate retroattivamente per valutare la legittimità del licenziamento avvenuto nel 2016?
Il lavoratore ricorrente ha sostenuto che la previsione del CCNL 2017 dovesse valere anche per il fatto accaduto l’11 febbraio 2016, facendo leva sulla clausola del contratto che stabiliva la sua efficacia dal 1° gennaio 2016.
Secondo questa tesi, la condotta contestata avrebbe dovuto essere sanzionata con una misura conservativa e non espulsiva, rientrando quindi nell’ambito di applicazione dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori (che prevede la reintegrazione in caso di sanzione espulsiva illegittima).
Licenziamento disciplinare e retroattività del nuovo contratto: la decisione della Cassazione
La Cassazione ha respinto l' argomento affermando che, anche in presenza di una clausola che dichiari la retroattività di un contratto collettivo, le disposizioni in materia di codice disciplinare – come quelle relative alle sanzioni – non possono operare retroattivamente in assenza di una previsione specifica e chiara in tal senso.
La Corte ha richiamato anche precedenti giurisprudenziali (tra cui Cass. n. 29906/2021 e Corte Cost. n. 129/2024) per sostenere che l’autonomia collettiva può prevedere la retroattività per aspetti economici, ma non per quelli disciplinari, i quali incidono direttamente sui diritti e le garanzie dei lavoratori e devono essere conoscibili e prevedibili ex ante dal datore di lavoro.
Di conseguenza, è stato confermato il diritto del lavoratore a un’indennità risarcitoria pari a 21 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza tuttavia disporre la reintegrazione.
È stata inoltre respinta la richiesta del lavoratore di elevare l’indennizzo a 36 mensilità in base alla sua anzianità di servizio, in quanto – come ribadito dalla giurisprudenza – la quantificazione dell’indennità rientra nella discrezionalità del giudice di merito e può essere censurata in Cassazione solo in presenza di motivazioni assenti o contraddittorie, cosa non verificatasi nel caso di specie.